…nell’era dei luoghi senza storia, memoria o identità
Graziano Martignoni
…nell’era dei luoghi senza storia, memoria o identità (2) – dagli aeroporti agli outlet, dalle aree di sosta autostradali alle stazioni ferroviarie – ci troviamo spesso a vivere come erranti inconsapevoli in paesaggi sempre più pieni di vuoto. In questo tempo che ci rende cittadini del mondo senza davvero renderci cittadini di nessun luogo, abbiamo bisogno di una pausa. Una pausa per lo sguardo, una pausa per il sentire e il pensare.
La “meditazione” fotografica che Luca Bertone ci offre attraverso le immagini di alcuni borghi del Piano del Vedeggio, catturati nella loro essenza tramite oggetti, vicoli, finestre e portoni, ci dona la preziosa opportunità per tale pausa. Una pausa che è anche un momentaneo viaggio visivo verso ciò che non vediamo, ma che continua ad esistere e a cui cerchiamo di dare nuova vita.
Una narrazione fotografica come gesto etico, prima ancora che artistico. Se il lavoro artistico ha valore, è perché crea anima, diventa anima. Fotografie alla ricerca di ciò che Hillman chiama l’anima dei luoghi.
Che i luoghi abbiano un’anima e che il compito del gesto artistico sia scoprirla e permetterne la rinascita è un’antica credenza. Eppure il nostro mondo ha sempre più nascosto l’interiorità dei luoghi, anestetizzando il nostro sguardo, lasciandoci talvolta esuli nella “nostra stessa casa”, esposti all’incertezza del vagabondare per chi ha perso la via. Un tempo, boschi, crocevia, sorgenti e pozzi erano abitati da dei, ninfe o daimones. Ora tutte quelle figure del nostro mondo interiore, figure anche dell’interiorità di una comunità, sono scomparse. I segni segreti della loro antica presenza, che queste fotografie cercano come fossero tracce incerte in uno spazio ancora sconosciuto, parlano di un’altra realtà contrapposta alla fredda, funzionale “segnaletica” della nostra frettolosa quotidianità. Ma allora cosa rivelano e rendono visibili le fotografie di quei borghi, con il loro sapore di mistero e di antichità?
Per vedere veramente, l’occhio a volte deve chiudersi, altre volte semplicemente guardare altrove, accettando di perdere per un istante quella concentrazione, quella “luce della ragione” che separa, ordina, classifica ogni cosa, e così ci illude di catturare e controllare la realtà, mentre invece la nasconde. La fotografia è immagine di ciò che è già stato. Qui forse risiede l’atmosfera malinconica che pervade anche queste fotografie.
Ma qui c’è anche la gioia della riscoperta. Perdita e riscoperta di quell’anima smarrita, che forse continua a vivere proprio dove meno ce lo aspettiamo, di quell’anima che un tempo sentivamo anche senza vederla o descriverla davvero. È come se fosse una registrazione visiva di ciò che il tempo ha già cancellato nel frattempo.
Ecco perché queste fotografie sono al tempo stesso oggetti preziosi e tristi. Esse rendono visibile l’essere-già-stato, l’essere-già-accaduto, come un punto di catastrofe della realtà stessa. Ma è proprio qui che si compie il miracolo che ci lascia muovere nel “non-ancora-accaduto”, dove tutto è ancora possibile. La fotografia come “levatrice” di un’anima dei luoghi creduta persa.
Ecco perché la fotografia, e soprattutto l’atto di fotografare, è un gesto più tragico e rischioso di altre forme d’arte. Il mistero che rivelano risiede interamente nel “punctum” descritto da Barthes, nel satori del Buddhismo Zen, che è l’esperienza del risveglio nell’istante stesso in cui le cose stanno per scomparire. Qui risiede l'”aura” del gesto e dell’immagine fotografica. La fotografia, infatti, porta lo spettatore nel luogo della meraviglia.
L’abilità del fotografo, nel cogliere l’essenza delle cose che passano, non sta tanto nel farci vedere, quanto piuttosto nel testimoniare tramite l’immagine, quasi fosse una prova, di essere già lì quando le cose accadono.
Dove qualcosa nasce, dove qualcosa già muore nell’inquadratura della pellicola, diventando traccia e segno. In questo incessante movimento tra perdita e riscoperta, tra ciò che è già stato e ciò che non è ancora accaduto, dimora anche l’anima ritrovata di questi nostri luoghi.
(2) Qui mi riferisco ai “non-luoghi” di Marc Augé.